Cauterizzazione tarda e necessaria – ciò che resta di uno stupro

Piccola porzione di cielo azzurro. È una tiepida giornata di metà maggio e alcune nuvole scorrono veloci, tanto che le vedo appena passare: bianche, soffici, leggere. C’è una sola piccola finestra quadrata che dà sul tetto, peccato che in questa posizione scomoda riesca a scorgere solo un misero triangolo di cielo.
La sua faccia è così vicina da apparirmi deforme.  Quella faccia che credevo amica, che sembrava familiare.  Questa faccia che mi sorride con apparente benevolenza. Gli occhi furbi e affabili, la bocca svelta e insistente, le cui labbra cercano le mie e scoppiano in una risata non appena provo ad allontanarmi.
Ho smesso di ascoltare le parole che escono dalla sua bocca, non cerco più di capire nè rispondere nè spiegare. Le mie labbra si aprono solo per dire una parola, continuamente la stessa parola: NO. Eppure essa svanisce non appena la pronuncio perchè, nonostante io continui a sentirla risuonare in me e il suo eco rimbalzi nella mia gola, lui non sembra coglierla. Mi chiedo se sia sordo, indifferente o se non ne capisca il significato, se non sia in grado di considerare un rifiuto.
Il tempo passa, si dilata, si contorce mentre lui è immobile, sopra di me, irremovibile nella sua volontà di non darmi alcuna scelta. Inizio a pensare di non averla, io, una mia volontà, e di essere priva di un qualsiasi potere su ciò che accade in questo luogo.
Quella piccola porzione di cielo mi sembra l’unica cosa reale. Il mio corpo, qui, inerme e bloccato, non può esserlo, e se anche lo fosse non mi apparterrebbe più: ormai è carne esanime, un cadavere già eroso da dita che, come vermi, si infiltrano tra quelle che erano le mie morbide pieghe, e se ne nutrono, e ne banchettano finchè rimangono solo profondi e scuri solchi.
L’unica cosa che mi appartiene è la parola che continuo a ripetere e alla quale lui risponde con indifferenza o scherno.
I polsi mi fanno male e mi chiedo per l’ennesima volta come possa stringerli così, come possa tenerli bloccati sopra la mia testa con una sola mano.
Con l’altra gli piace tirare su la mia maglia e toccare carne e capezzoli mentre io osservo, passiva e attonita.
Ho una maglietta verde alla quale sono affezionata, una maglietta larga, stinta, con un piccolo bottoncino metallico. E dei jeans chiari, a vita bassa, di cotone leggero, tirati giù fino alle ginocchia. Non ho capito come ha fatto. Ero riuscita a tirarmi su, improvvisando una bugia in un inaspettato attimo di lucidità o follia; ero in piedi di fronte al letto e cercavo di elaborare frettolosamente qualcosa, una misera soluzione, una via di fuga. Mi sono resa conto che mi aveva tirato giù i jeans solo quando mi ha spinto di nuovo sul letto e bloccato con il suo peso.
Un materasso sotto di me, il suo corpo sopra di me, e la porta chiusa a chiave che mi separa dalla vita. Potrei correre, saltare e buttarmi dal terrazzo. Forse ce la farei a divincolarmi, a librarmi in un ultimo slancio. Forse preferisco la morte a questo. Ma non riesco a muovermi e non so inventare altre bugie, e d’altronde lui, adesso, non ascolta nemmeno la verità.
Penso a quando, un’oretta fa, eravamo in biblioteca e lui scriveva ricordi sul mio diario: raccontava di tempi lontani in cui eravamo molto amici e ci scrivevamo lunghe lettere e ci vedevamo al parco sotto casa. Penso a quando, improvvisamente, ha preso la mia borsa carica di libri e con il suo solito entusiasmo mi ha detto di seguirlo verso la sua casa dal cui terrazzo si vede tutta la città. Penso all’immenso terrazzo e al sole che vi splende. Al suo essere sempre affabile, generoso, simpatico. A quando mi ha mostrato un grande quadro fatto da lui, astratto, arancione e azzurro, e me l’ha offerto in dono, sapendo che avrei amato quei colori e facendomi notare quanto “in fondo siamo simili”.
Poi mi ha preso di peso, mi ha caricato su una spalla e mi ha scaricato esattamente qui, in questa porzione di materasso.
Un attimo dopo, nemmeno il tempo di stupirmi o reagire, lui si è posizionato su di me.
Vorrei essere lucida, vorrei impormi, vorrei scegliere.
Ma sono bloccata qui e l’unica certezza che ho è il cielo azzurro che continua a splendere imperterrito.
Non posso capire il suo cambiamento repentino, nè la sua forza inaspettata, nè la mia volontà inascoltata, nè la mia stessa incapacità di comprensione. Posso solo ripetere la stessa parola, come un inutile mantra. È davvero inutile. Io so cosa vuole. So esattamente cosa vuole. Non per la mia fervida immaginazione, ma perchè me lo ripete, perchè lo sta prendendo con la forza e io non posso sopportarlo. Non posso sopportare le sue mani insinuate tra la mia carne, nè la sua pelle a contatto con la mia. Bruciano, brucia, troppo. Ancora meno potrei sopportare che lui si infiltrasse dentro di me per poi lasciarmi in profondità il suo seme marcio. Io non voglio, non lo voglio.
La mia volontà verrà mai ascoltata?
La mia volontà importa a qualcuno?
La mia volontà esiste?
Lui insiste, lui vuole, lui cerca.
Lui scopre, lui prende, lui scherza.
Lui dice di volermi bene e di sapere che anche io lo voglio.
Lui dice di sapere meglio di me cosa voglio. E io voglio credergli. Perchè non mi è rimasto niente se non la possibilità di credergli e dargli ciò che vuole e fare finta di niente. Di me è rimasto solo un buco nero in cui spero cada anche lui.
Finalmente qualcosa scatta: sono io che mi arrendo e, sfinita, mi lascio andare al suo gioco. Perchè lui dice che è solo un gioco, un gioco innocente tra vecchi amici, un gioco troppo lungo e scomodo ma pur sempre un gioco e io voglio credere anche a questo.
Gli faccio capire che può fare quello che vuole, senza usare la bocca nè per assecondare i suoi baci nè per proferire parole inutili.
Mi lascio girare e appoggiare sulle ginocchia. Lo lascio invadere il mio spazio, il mio corpo senza nessuna protezione. Non sento niente, i miei sensi sono fortunatamente anestetizzati, mi rendo conto di non essere più lì con il mio corpo, l’ho abbandonato, e chissà dove sono o se esisto ancora. Addirittura forse emetto qualche verso nella speranza che lui finisca presto. Speranza che si avvera. Almeno questa. Ecco che si allontana. Il tempo ricomincia a scorrere. Veloce, come i battiti del mio cuore. Li sento pulsare nella testa e capisco che in me c’è rimasto qualcosa di vivo. Qualcosa che vuole solo uscire da questa gabbia, da questo edificio, dal suo raggio d’azione, e dimenticare.
Qualcosa che vuole correre e scalpita, ma che con calma si riveste e quieta si prepara a fare finta di nulla. Perchè ha paura. Questa piccola cosa viva dentro di me ha paura di aver vissuto qualcosa di terribile e indimenticabile.
Preferisco convincermi che non è successo assolutamente nulla di male. Io sono brava a convincermi. Posso farcela.
“Lui voleva qualcosa di mio e io gli ho permesso di prenderlo. Cosa ci sarà mai di male?”
Me lo ripeto. Ancora. E ancora.
“In fondo, perchè mai dovrei rifiutare un po’ di sesso? Anzi, mi è persino piaciuto.”
Mi viene la nausea.
“Mi è piaciuto.”
Voglio vomitare.
“Mi è piaciuto.”
Voglio morire.

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